Il tumore alla mammella è una delle patologie più frequenti nel genere femminile: interessa all’incirca una donna su otto. Negli ultimi anni la ricerca ha compiuto notevoli passi avanti, scoprendo alcuni dei meccanismi di insorgenza e prendendo atto dell’andamento ciclico di questa patologia. Oggi esistono, infatti, delle efficaci terapie, tra cui quella che si basa sull’utilizzo degli antagonisti degli ormoni estrogeni (endocrino-terapia).
Nonostante le terapie permettano di arrivare a risultati molto favorevoli, in una percentuale delle pazienti il tumore sviluppa una resistenza alla terapia. In alcuni casi, infatti, si ripresenta a distanza di tempo, anche in modo più aggressivo. La ricerca attuale allora ha cercato di spendersi il più possibile per la comprensione di questo specifico comportamento della malattia, realizzando nuovi farmaci ancora più efficaci per riuscire a contrastarla.
Nei giorni scorsi, la rivista Science Advances ha pubblicato uno studio che ha mostrato come all’interno delle cellule del cancro alla mammella sia presente un interruttore molecolare, la proteina DOT1L. Questa proteina agisce sul genoma, dunque, è capace di controllare la crescita delle cellule malate. Grazie all’utilizzo di un farmaco, il pinometostat/EPZ-5676, si può inibire la proteina DOT1L, riducendo di conseguenza la crescita del tumore e inducendo la morte delle cellule cancerose. Anche di quelle resistenti alla terapia con gli antagonisti degli estrogeni. In altre parole, si tratta di una scoperta che ha permesso di trovare un bersaglio molecolare per la terapia personalizzata delle forme di cancro resistenti alle terapie usate sinora.
Lo studio è stato sostenuto dall’Associazione Italiana per la ricerca sul Cancro dal progetto regionale La Campania lotta contro il Cancro. Il gruppo di ricerca internazionale è stato coordinato dal prof. Alessandro Weisz e ha avuto come membri il dott. Giovanni Nassa e Giorgio Giurato del Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria ‘Scuola Medica Salernitanà dell’Università di Salerno. Lo studio ha potuto contare sulla collaborazione con ricercatori delle Università di Catanzaro, Helsinki, Turku e Oslo, del CNR-ITB di Milano e della start-up biotech.
Questo post è stato pubblicato il 22 Febbraio 2019
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