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Università, sì all’abolizione del valore legale della laurea: la proposta del governo

Dopo i recenti movimenti in termini di assunzioni, i vertici del governo starebbero pensando anche a qualche ulteriore modifica in ambito scolastico, come l'abolizione del valore legale del titolo di studio.

Il governo Lega-5stelle, reduce dai primi sei mesi di legislatura, sembra aver preso a cuore la questione scuola, come dimostrano gli ultimi decreti attuati in ambito concorsi. Nelle intenzioni, però, sembra esserci dell’altro, a giudicare da alcune considerazioni in merito alla possibile abolizione del valore legale del titolo di studio. 

Questa proposta non è nuova per la scuola italiana, trovando un precedente all’interno del governo tecnico di Mario Monti: qualche anno fa, essa prevedeva di non dar più valore al titolo di studio posseduto per l’accesso ai concorsi pubblici, punto direttamente collegato con l’annullamento del vincolo del voto di laurea.

La stessa laurea, inoltre, non avrebbe più assunto importanza maggiore di un qualsiasi altro titolo ai fini delle graduatorie (sempre in materia di concorsi pubblici) e, ancora, non si sarebbe fatta differenza circa il tipo di università/facoltà frequentata da un candidato.

Questo provvedimento non ha ancora trovato attuazione, sebbene anche legislature precedenti abbiano cercato di muoversi in questa direzione, che ora esponenti del partito pentastellato sembrano essere pronti a desiderano perseguire ed attualizzare. 

Anche il leader della Lega, Matteo Salvini, si è espresso in relazione a questa proposta, mostrando tutta la sua disponibilità ad un’eventuale approvazione; rendere nota la sua posizione ha contribuito, come in altri ambiti, a scatenare un autentico dibattito sulla piazza virtuale, dividendo i partecipanti tra “pro” e “contro” la proposta di ridimensionare il peso dei titoli di studio posseduti.

Il fronte del sì, che segue l’opinione della maggior parte dei vertici di governo, sarebbe propenso all’abolizione, in vista di una possibile competizione che spinga le università a puntare sempre più in alto in ambiti di offerta formativa, mancando ai candidati un certificato che ne dimostri l’ateneo di effettiva provenienza.

Chi propende invece per il “no”, lasciando tutto così come è stato finora, si difende additando al pericolo che una selezione priva di un simile requisito possa favorire la raccomandazione (generalmente tipica per chi con difficoltà racimola titoli), evitando anche che l’annullamento della distinzione possa creare un frazionamento tra università di prima e seconda categoria.